Quando i paesi dicono addio al carbone. L’economia del futuro è ricca e “green”
Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca e Islanda hanno deciso di non finanziare più le centrali all’estero. Ma la battaglia contro il cambiamento climatico è ancora lunga. Per ora solo tiepide iniziative e tante parole. Anche se, numeri alla mano, l’energia pulita è un investimento anche economico.
I paesi scandinavi hanno detto no agli investimenti verso le centrali di carbone all’estero. Un piccolo passo per l’ambiente, ma significativo dei cambiamenti di politica energetica che molti paesi, a volte malvolentieri, stanno attuando. “A livello internazionale – dice Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia per WWF Italia – istituzioni e associazioni si stanno unendo per eliminare gli investimenti nell’energia fossile”. Questo trend non è solo il frutto delle campagne ambientaliste contro l’inquinamento e il riscaldamento globale, ma deriva anche dalle indicazioni dell’Ipcc, il comitato intergovernativo per i mutamenti climatici dell’Onu, premiato con il premio Nobel per la pace nel 2007. L’Ipcc si riunirà a fine settembre a Stoccolma ed entro aprile dovrà redigere il suo quinto report sull’impatto del cambiamento climatico sull’economia mondiale.
Quello dei paesi scandinavi è indubbiamente un segnale forte, che insieme ad altri segnali può creare una tendenza. Quest’estate due notizie hanno allietato i sogni di ambientalisti e attivisti. La Banca mondiale ha infatti dichiarato che non investirà più in centrali di carbone e la Bei (la banca europea degli investimenti) ha deciso di eliminare i finanziamenti destinati alla costruzione di centrali elettriche a carbone, a meno di rare circostanze. Va detto che già durante il G20 di Pittsburgh nel 2009 i leader si impegnarono a’eliminare gradualmente e razionalizzare i sussidi ai combustibili fossili a medio termine, fornendo un sostegno mirato per i più poveri’. “Quando si prendono decisioni di questo tipo – dice Midulla – noi dobbiamo tendere bene le orecchie, perché c’è sempre una parola-escamotage che i grandi usano come scappatoia. È quello che è successo con la promessa del G20. A distanza di quattro anni non è cambiato niente”.
Si spera comunque che queste iniziative possano generare un effetto a cascata e dirigere gli investimenti verso energie ‘pulite’. Atteso con ansia è anche il vertice di un’altra importante istituzione, l’Ebrd (la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) che in questi giorni sta discutendo la nuova strategia energetica da attuare nei paesi di competenza.
Ma, catastrofi ambientali a parte, il carbone è ancora un buon investimento? Numeri alla mano sembra che il treno verso le sostenibili debba essere preso, non solo per questioni etiche, ma anche per il benessere del portafoglio. “Il passaggio alle rinnovabili – spiega Midulla – prima si fa, meno costerà. La spesa della ‘decarbonizzazione’ è minima se si pensa ai costi che avrebbe affrontare la catastrofe ambientale dovuta all’inquinamento. Investire sull’energia pulita è un’assicurazione sul futuro”. E per rafforzare la sua tesi cita la spending review di Nicholas Stern “The Economics of climate changes”. Stando alle previsioni dell’economista in futuro si perderà ogni anno il 5% del Pil mondiale a causa del cambiamento climatico dovuto all’inquinamento. E questo nelle più rosee prospettive. Stando infatti alle previsioni di Stern, se si estendesse il raggio dei rischi e degli impatti sull’economia mondiale dell’inquinamento, si arriverebbe a perdere circa il 20% del Pil ogni anno.
I benefici delle rinnovabili non possono essere ignorati. E non solo quelli diretti. “Ci sono – sottolinea Midulla – una serie di co-benefici importanti. Bisogna tenere presente che raramente chi inquina, paga. Di solito è lo Stato a pagare. Se si pensa alle spese che una nazione deve supportare per curare le malettie dovute all’inquinamento, si capisce quanti soldi in più ci sarebbero da spendere per i cittadini. Ed è per questo motivo che economie come la Cina hanno deciso, lentamente, di limitare l’uso del carbone. Per non parlare poi delle tensioni sociali che crea vedere che lo Stato inquina le acque e l’aria che si bevono e si respira!”.
Il rischio è che, tra indifferenza e interessi, si superi quel punto di non ritorno che renderebbe il passaggio alle rinnovabili non più una prevenzione, ma una cura del tutto inefficace. Molti infatti credono che bisognerebbe aspettare che finiscano i giacimenti di materiale fossile, prima di rivoluzionare un sistema che ha fatto crescere in tempi record l’economia di mezzo mondo.
E l’Italia? Il Belpaese ha avuto un atteggiamento positivo in ambito europeo sulla questione, ma individualmente non ha preso provvedimenti. Ci sono tredici centrali a carbone e molti paesi stranieri, per allargare il business decidono di investire qui, il problema è che facendolo il problema è tutto e solo italiano. “Stiamo rischiando -conclude Mariagrazia Midulla – di diventare una colonia ‘carbonifera’. In Italia servono delle norme per limitare gli investimenti esteri e il dilagare dell’energia fossile”.
Fonte. La Repubblica